Estate romana

Matteo Garrone / 2000

 

Per chi la passa a Roma l'estate è La grande bolla, una serra da cui non riesci a uscire. Le impalcature dei palazzi che hanno sempre qualcosa da portare a termine, un cantiere in rifacimento che traghetta verso il nuovo che ancora non c’è, che è soltanto progetto, sogno, illusione.

L’estate romana è difficile, Roma è difficile. È il Fiesta, i balli di gruppo, la fila di macchine parcheggiate lungo gli stabilimenti di Ostia, le feste sui terrazzi, gli odori e le facce dei portici di Piazza Vittorio, le riunioni di quartiere per arginare l’invasione degli extracomunitari. Non è cambiato nulla. 

Nel Giubileo del 2000 avevo neanche diciott’anni, l’estate per me era la vacanza, la separazione tra il vecchio anno di liceo e il successivo. Qui i nostri amici la scuola l'hanno finita, forse anche l’università. E vivono in una parentesi.

C’è un’ironia crudele, dolcemente umana. È la crudeltà del vuoto, delle passeggiate pomeridiane senza meta, delle giornate a chiedersi cosa, come. Hanno il mondo nelle loro mani ma non sanno che farne, anzi è un ingombro piuttosto costoso, che gli ha fatto perdere un sacco di tempo. Se Il grande dittatore si divertiva a prendersi gioco del pianeta facendolo saltellare con dei calci leggeri, qui la realtà è un globo pesante, un’altra angoscia di cui liberarsi. C’è qualcosa del peregrinare morettiano, dei tormenti della generazione di Santa Maradona.

Rossella, anima fragile e ballerina. La voce sottile come una foglia, si muove controvento, poetica e sbattuta. Paradossale il suo consiglio teatrale a una giovane attrice durante un provino: restare immobili, tenere lo sguardo lontano, all'orizzonte. Lei che si perde tra i finestrini di un autobus, come tra i fili di una conversazione. 

Salvatore, lo scenografo demiurgo che rimpiange il mare e il suo trascorso da avvocato. Ha una curiosità invidiosa verso l’amico bagnino che ogni sera si porta a letto una, due, tre ragazze diverse. Lui che non riesce a dichiararsi, a fare un passo deciso, che risponde di stizza, infantile, geloso, testardo. 

Monica è la sua assistente e il suo traguardo platonico, la sessualità che non riesce a esprimere. Dei tre è quella più salda, deve esserlo perché ha la responsabilità di una figlia da crescere sola e al riparo dalla suocera che vuole portargliela via. Si tiene stretta anche il secondo lavoro al chiosco la notte, visto che con le scenografie non si guadagna niente.

I contorni sono mossi, inquieti; le costruzioni improvvisate e irripetibili. Le voci arrivano sporche, sfocate, zeppe dell’ambiente intorno, di una città che opprime e dilaga ovunque, malgrado tutto. Le musiche ti si fermano in gola, come il caldo e la sabbia.

C’è una sequenza, nella parte iniziale, quando Monica va a prendere la figlia dalla nonna, in cui dentro una stanza vediamo rapidamente un’anziana allettata, per poi proseguire oltre. È un'immagine che ho visto tornare in alcuni film di Gabriele Muccino: i personaggi hanno a che fare con quest’ombra presaga in una camera, da cui fuggono istantaneamente. Curioso questo contatto tra i due registi, lontanissimi, ma entrambi romani, coetanei. La morte arriva anche qui, inaspettata e inspiegabile, un telefono che suona nel cuore della notte. 

Sono creature a cui vuoi subito bene, ma che allo stesso tempo vorresti prendere a schiaffi. Ti chiedi che fine hanno fatto, che ne è stato di loro, della loro arte, di quell’amarezza leggera, venticinque anni dopo. Se hanno imparato a fare i gamberi in modo decente, come a fare pace con la burrasca che si portavano dentro. Se hanno trovato un modo per stare bene, o se ancora si accontentano di non stare male.

 
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